domenica 10 febbraio 2013

Vittime del peccato

Mi sta accompagnando in questi giorni la lettura di un libro di José Maria Castillo, Vittime del peccato, pubblicato nel 2012 dall'editore Fazi nella collana Campo dei Fiori, curata da Vito Mancuso. Vi si tratta il tema del peccato e soprattutto di come esso possa diventare e molte volte sia diventato strumento di dominio nelle mani della religione ufficiale. 
Impressiona per ora la distanza fra la concezione gesuana di peccato e quella presente nell'antico testamento sino al tardo giudaismo e a Giovanni il Battista. Quest'ultima - sostiene Castillo – purtroppo accompagna ancora la religione del nostro tempo e concepisce il peccato come offesa a Dio mediante la trasgressione della Legge, "come violazione dei mandati e delle proibizioni divine e, quindi, come deviazioni dal retto e buon cammino" (p. 56). Giovanni il Battezzatore è preoccupato di questo e da questo invita alla conversione. C’è un salto enorme fra questa visione e la concezione di peccato nell’annuncio del regno operato da Gesù.
La preoccupazione di Gesù non è la trasgressione della Legge, ma la sofferenza delle persone, "la loro felicità o sventura" (p. 85). Non la "collera divina" – che Giovanni paventava a ogni piè sospinto e che egli, Gesù, invece neppure riesce a concepire – ma la sofferenza umana sta al centro di tutto. "La missione di Gesù e dei suoi discepoli è, prima di ogni altra cosa, rimediare alla sofferenza di questo mondo e rendere più felice la vita delle persone": e dunque a peccare è "chi causa la sofferenza o se ne disinteressa" (p. 84).
Per Gesù "chi si impegna veramente e a lottare contro il dolore del mondo e le pene della gente entrerà in conflitto con le autorità civili (sinedri) e religiose (sinagoghe). Perché, in fin dei conti, sono i poteri di questo mondo, civili o religiosi, a causare la maggiore sofferenza della povera gente" (p. 84).
Continua Castillo: "Gli 'uomini della religione' si sono sempre dedicati alla religione sopra ogni altra cosa. Si sono impegnati, anima e corpo, a difendere le verità religiose, ad adempiere alle leggi religiose e a osservare i rituali religiosi. E vi si sono donati con una fedeltà tale che, in caso di necessità, hanno persino abbandonato per strada un moribondo pur di arrivare puntuali e immacolati alle cerimonie del tempio (...). Nelle religioni del mondo e in particolare nella Chiesa abbondano i 'pastori di anime' che assomigliano al sacerdote e al levita della parabola del buon samaritano. Il che dimostra fino a che punto la religione corre il rischio indurire il cuore degli uomini” sino a rendere “i professionisti della religione un modello finito e perfetto di mancanza di solidarietà. Perché ciò che importa loro è la relazione con Dio, cioè il peccato. Mentre invece l'eretico samaritano è il modello di come bisogna agire dinanzi alla sofferenza umana" (p. 88-89).
Certi "uomini della religione" - Castillo non generalizza certo - sono disposti a tutto. "Da quelli che, per adempiere ai propri obblighi religiosi, non esitano a uccidere chi si oppone alla propria religione a quelli che, per esempio, hanno fatto tutto il possibile per sopprimere la teologia della liberazione, perché si occupava dei problemi sociali e trascurava l'ortodossia che hanno in mente i professionisti del 'pensiero unico', quel 'monolite religioso' che alcuni considerano indiscutibile e intoccabile, per come loro lo vedono". (p.89).
Tutto questo mentre Gesù si occupa prima di tutto e sino all'ultimo della pena della gente. Così nella scena del cosiddetto giudizio finale (Mt 25,31-46) egli rivela che "quando arriverà il momento definitivo, il criterio che Dio seguirà per distinguere coloro che si salvano da coloro che sono perduti, non sarà il peccato ma la sofferenza. Il testo infatti non dice: Andate, maledetti, nel fuoco eterno perché avete rubato, ucciso, mentito, fornicato, ecc. Non si menziona né la violazione di un solo comandamento, né l'inadempimento di una sola norma. Né si parla di macchie o colpe. Né di offese a Dio. Anzi, non si parla affatto di fede né di religione ma, unicamente, di una cosa, una sola, che è quella determinante: l'interesse o il disinteresse che ciascuno ha avuto nei confronti della sofferenza degli altri. Gesù non parla d'altro: la fame, la sete, l'isolamento, la privazione totale di chi non ha che cosa mettersi, la malattia, la mancanza di libertà e gli oltraggi subiti dal prigioniero. Ciò che conta non è il comportamento dell'uomo verso Dio, ma dell'uomo verso l'uomo. Né contano la dignità o i diritti di Dio, ma piuttosto la dignità e i diritti dell'essere umano. Chi si disinteressa della sofferenza degli altri pecca". (p. 90).
"Gesù – sostiene Castillo – ha cambiato la nostra comprensione del peccato perché, in definitiva, ha cambiato la nostra comprensione di Dio", annunziando un "Dio che si fonde e confonde con l'essere umano" (p. 91). Ma, mi domando: le cose stanno proprio così? È proprio vero che la comprensione del peccato da parte del cristiani oggi è quella che Gesù aveva in mente e soprattutto in cuore? E nella ordinaria catechesi della Chiesa, per quanto riguarda questo argomento, non si preferisce tornare all'antico e lasciare i fedeli nell' "ignoranza delle scritture"? E se uno si mettesse alle porte delle chiese e chiedesse alle buone persone religiose che cosa esse intendono per peccato, quante volte la risposta rispecchierebbe davvero il pensiero e l’azione di Gesù?
Ne riparleremo.

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sabato 4 agosto 2012

Povere mura

Nel  tardo pomeriggio assolato passiamo a piedi, Monica e io, sul sagrato della parrocchiale. Nel luglio infuocato della pianura, le porte laterali sono lasciate aperte a far correre un fiato d’aria. La chiesa vuota sembra voler dire qualcosa. Un senso di pietà e gratitudine ci coglie, insieme e all’improvviso, per quelle mura millenarie. È la chiesa dei nostri battesimi, dei battesimi dei nostri genitori, dei nonni e dei loro nonni. È la chiesa delle nozze, nostre e di amici. La chiesa del battesimo di Luca. La chiesa dei canti, degli amici riuniti, di tanti volti amati e perduti. Ora, nel vespero luminoso, gravida di voci assenti, tacendo ci parla.
Le venerande mura stanno. Così, semplicemente, da secoli. Han veduto vagiti, voli di riso e risa a manciate, parole rotte dal pianto. Le volte disadorne, i pilastri tenaci, le poche immagini offerte alla venerazione dei fedeli. Ai due ingressi – sempre risuonanti dei passi di quanti sono arrivati e partiti – le acquasantiere di marmo, color della pece, secche d’acqua santa ma colme all’orlo delle lacrime di gioia e dolore di intere generazioni.
In mille anni saranno una piccola folla, ormai anonima per lo più. Qualche nome, provando a sfidare l’oblio, è inciso su una lapide che quasi nessuno più scruta. Se ascolto, ne riconosco i passi fruscianti. Quelli degli uomini “in lunghe vesti”. Entrando qui, taluni se ne saranno presto spogliati – di vesti e paludamenti – desiderando ardentemente indossare “l’unico paramento sacro che viene ricordato nel vangelo”. Altri – mostrando forse di pregare a lungo –  avranno pensato ad allargare il guardaroba, a guadagnarsi saluti di piazza e posti di prima fila. Alcuni avranno amato quelle mura da innamorati folli, fecondandole di passione e di amore, perché si facessero grembo di figli e figlie, casa comune di fratelli e sorelle. Altri le avranno soltanto possedute per obbedienza, amministrate per incarico, con poca anima e niente cuore, senza incanto né tormento.
Tant’è. Le povere mura sopravvivranno, agli uni e agli altri. E anche a noi. Sopra di esse ancora andranno cieli tersi e nubi plumbee. Finché Dio vorrà accoglieranno speranze, ascolteranno segreti, attenderanno ritorni. Gli uomini passano, con le loro grandezze e le loro miserie. Esse restano. La pietà che per loro ci coglie, in questo giorno ormai al declino, in verità è solo barlume di fronte alla Grande Compassione che le abita e di cui vogliono continuare ad essere mute testimoni. Compassione per l’umano, per tutto l’umano. E che non potrà che essere l’ultima parola su ciascuno e su tutti. Davvero su tutti.

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lunedì 21 maggio 2012

Per questo disegno d'amore...

Durante la messa di ieri, celebrata nel il rito ambrosiano, sono stato colpito da un’espressione usata nel prefazio, che è la preghiera che il sacerdote fa prima di consacrare il pane e il vino. In essa, tra le altre cose, si dice che “Per riscattare la famiglia umana il Signore Gesù… vinse il mondo con il suo dolore e la sua morte”. L’idea veicolata da una simile espressione è ancora quella del sacrificio. Davanti agli occhi del pio praticante la visione che si staglia è più o meno la seguente: all’alba dei tempi il mondo viene creato da Dio una volta per tutte; Dio pone l'uomo al centro del creato, ma subito questi disobbedisce a certe norme più o meno sensate, offendendo il Creatore in maniera mortale e ponendo un germe di inimicizia tra sé e lui. Occorre qualcuno che lo “riscatti” da questa distanza.
Questo è il primo problema, che riguarda essenzialmente il volto di Dio. Un Dio evidentemente perennemente corrucciato dai giorni dell’Eden. Una sorta di inquieto Barbablu che vedendo morire sulla croce l’unico Figlio, improvvisamente ottiene di placare la propria collera nei confronti del genere umano che lo aveva offeso nella persona dei progenitori. A parte tutte le altre questioni che vengono aperte da una tale  ingenua visione delle cose, mi chiedo: ma può un dio dal profilo così ambivalente, che pretende di essere padre e nel contempo desiderare la morte del figlio come pieno risarcimento per il peccato commesso da altri, avere qualche possibilità di credibilità nel suo essere buono e misericordioso? Come si può affermare la piena gratuità dell'amore di Dio se ancora, nella esperienza di fede, sussiste indisturbata questa immagine di dio? Come non prevedere che si crei una grande confusione mentale in chi la prenda sul serio e che alla lunga tale confusione sfoci in nevrosi?

La seconda perplessità va a braccetto con la prima: sono il dolore e la morte di Gesù a “vincere il mondo” o piuttosto la sua ferma decisione a rendere testimonianza alla propria visione del mondo? Il sangue versato non è forse la inevitabile conseguenza del suo voler restare fedele a se stesso e del suo modo di intendere la vita? La morte violenta non è lo sbocco prevedibile del suo pressante annuncio del regno di Dio, così scomodo per il potere religioso e politico del tempo e di tutti i tempi? Perché dunque nel cuore del rito eucaristico, facendo memoria di tutto ciò, ci si ostina a sottacere la causa sottolineando l’esito? Perché le persone sono ogni volta invitate a riflettere sul dolore finale e molto meno sull’intima decisione di Gesù, quella che ha pervaso tutta la sua esistenza terrena? Decisione di offrire una ricetta di una possibile convivialità e di stare dalla parte degli oppressi sino alle conseguenze più estreme. Decisione di annunciare la Bontà senza condizioni che desidera che gli uomini vivano e vivano in pace.

Soltanto nella chiara consapevolezza della “fedeltà al mondo” da parte di Gesù, del coraggio radicale di parteggiare per i piccoli e per gli esclusi. Soltanto facendo piazza pulita da ormai incomprensibili e imbarazzanti immagini di Dio. Soltanto allora potremo essere “riconoscenti e ammirati per questo disegno d’amore, ed elevare uniti agli angeli e ai santi l’inno di lode”.

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domenica 25 marzo 2012

Assemblea di condominio














Assemblea straordinaria dello stabile. Problemi di cassa. Un membro ha un arretrato di spese da pagare. Sei mesi, un migliaio di euro, effetti tangibili della crisi economica.
Il branco condominiale prima latra, poi minaccia di mordere. Mandargli l'ufficiale giudiziario al campanello, che faccia un giro nell'appartamento e pignori il salotto. O la macchina.
Feroci soprattutto i condòmini con la pensione di reversibilità in saccoccia e il beneamato coniuge sotto un metro di terra. Il giorno dopo me li ritrovo sulle prime panche della messa vespertina, a biascicare giaculatorie. Vi si celebra un amore così gratuito e potente da risuscitare un morto di quattro giorni. E nessuno di loro che abbia il buon gusto di alzarsi ed uscire.

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giovedì 8 marzo 2012

Il parroco che sapeva tutto

È una storia che avrebbe potuto ispirare Alphonse Daudet. Angéline la racconta come una favola per farci sorridere. Tutti i dettagli sono inventati perché l'essenziale è assolutamente autentico. I fatti si sono svolti in Francia, quest'anno.

È un paese come ce ne sono a migliaia; una grossa borgata, con la caserma dei carabinieri, la scuola media e il supermercato, due farmacie e tre panetterie, e due bar, uno dove si gioca la schedina e l'altro che dispone i suoi tavolini in piazza sotto i platani. In primavera, sembra di essere in paradiso e in estate l'aria diventa così asciutta e calda che bisogna proprio rinfrescarla con il pastis servito con l'accento tipico del posto.

Ah, dimenticavo la cosa fondamentale... almeno nella mia storia: la nostra chiesa, una bella chiesa grande, piazzata lì da secoli. Oggi c'è rimasto solo un parroco, per noi e per tutti i paesi dei dintorni.

Allora, il parroco vive metà del tempo in automobile. Nel tempo che gli resta incontra tutte le persone che si occupano della parrocchia, le signore che fanno il catechismo, che visitano gli anziani alla casa di riposo, che preparano i funerali, i battesimi, i matrimoni, che mettono i fiori davanti all'altare, che spolverano i banchi... No, esagero, non ci sono solo delle signore, ci sono anche alcuni signori. Ad esempio, c'è Jacques, l'ex professore di musica della scuola media, che fa cantare tutti durante la messa.

Quell'uomo è una persona molto brava, solo che... Solo che la sua vita non è stata molto semplice. Prima di tutto, ha sposato una ragazza, che un bel giorno se n'è andata lasciandogli un bimbo di tre anni. Poi si è innamorato di una professoressa di matematica molto carina. Venticinque anni e tre figli dopo, è subentrata la noia e l'amore se n'è andato. Siccome di figli a casa non ce n'erano più, hanno divorziato promettendosi di restare amici, e così hanno fatto. Pensava che il suo cuore fosse troppo vecchio per innamorarsi ancora, quando ha incontrato Bénédicte, una vedova tutta dolcezza e delicatezza, e dotata di una voce splendida. Bénédicte, come dice il suo nome, era una benedizione. Ed è stata lei a riportarlo a Dio... e alla Chiesa, ed è così che è diventato il direttore del coro della parrocchia.

Allora, quello che vi ho raccontato risale a quando c'era il vecchio parroco, un bravo parroco, un po' obeso, riconoscibile per la sua polo da parroco; uno del posto, che usava spesso la parlata locale per raccontare le storie del Vangelo come se si fossero svolte sulla collina vicina. Ahimé, il nostro buon parroco era troppo vecchio, allora il vescovo ce ne ha mandato uno nuovo nuovo, stretto nel suo colletto nero. Un bel giovanotto dalle idee chiare quanto i suoi occhi, che sa stirarsi le camicie e non ha bisogno di mettersi delle polo.

Il nostro nuovo parroco è un modello recente ben attrezzato. Ha studiato a lungo, e quindi sa tutto, quello che bisogna fare e quello che non bisogna fare. Così, risparmia molto tempo, perché non ha bisogno di ascoltare, solo di dire quello che bisogna fare.

Ad esempio, ha detto alla vecchia Geneviève, una maestra in pensione che non fa mai errori di ortografia, che ormai si sarebbe occupato lui del giornalino parrocchiale, perché con il suo computer si fa in fretta. E così è toccato a lui fare le fotocopie, il che è un po' lungo, perché la fotocopiatrice si surriscalda e bisogna sempre aspettare un po' dopo ogni tiratura di venti copie. Perché vi racconto tutto questo? Per mostrarvi che a volte ci sono segni della Provvidenza in tutte le piccole cose. Vedrete!

Allora, il nostro buon Jacques, che aveva creduto che il suo cuore fosse troppo vecchio, si era sbagliato di una decina d'anni. Ma una sera aveva portato la mano al petto, aveva barcollato ed era morto per una crisi cardiaca prima dell'arrivo dei soccorsi.

Lettori e lettrici, non piangete, non rattristatevi: non aveva forse avuto una bella vita l'amico

Jacques? Aveva amato molto ed era stato ricambiato. Nessuno dubitava che Dio lo avrebbe accolto a braccia aperte e che avrebbe potuto unire la sua voce a quella dei beati e degli angeli. Beh, dire nessuno... forse è troppo. Il nostro nuovo parroco, lui, sapeva che quel Jacques lì era un peccatore, che aveva divorziato due volte e viveva da adultero con una terza donna. Quindi, era assolutamente escluso che potesse venir celebrato per lui un funerale da buon cristiano. Questione non negoziabile!

Non vi ripeterò le parole che sono state dette. Sapete, in questo paese, non abbiamo peli sulla lingua. Ma neppure dopo essere stato apostrofato con i più fantasiosi epiteti tratti dal regno animale, il giovanotto non demordeva e nessuno poteva obbligarlo a fare ciò che non voleva. È a questo punto che la mia storia comincerà a divertirvi!

Ah, non vuole farlo, si dissero i parrocchiani furenti, adesso vedremo...

Perché dovete sapere che il signor parroco nuovo aveva già acquisito una serie di abitudini e tutti i venerdì mattina si occupava del “suo” giornalino parrocchiale, e con la vecchia fotocopiatrice gli ci voleva tempo. Il fatto è che la fotocopiatrice è installata nel presbiterio, in uno stretto sottoscala, che ha una porta con una chiave, una chiave che sta all'esterno, perché quella porta deve essere chiusa.

Il signor parroco è stato inflessibile su questo punto: “Questo presbiterio è aperto ai quattro venti! D'ora in poi, le porte dovranno essere chiuse!” Allora, quella mattina, qualcuno ha eseguito gli ordini... e ha chiuso la porta! E, casualmente, era proprio la mattina del funerale di Jacques. Chissà com'è successo, quando il carro funebre è passato davanti alla chiesa, ha rallentato come per salutarla un'ultima volta a nome

di Jacques... e poi, alla fine, si è fermato. I giovanotti delle pompe funebri, bravi ragazzi del paese, hanno preso la bara per offrire a Jacques un ultimo giro, un arrivederci. E, per caso, in chiesa, c'erano gli amici di Jacques, che si erano riuniti per pregare per lui! Gli amici, i figli, i nipoti, le donne che aveva amato, i suoi ex alunni, i suoi amici professori... E dato che Jacques era lì, ne abbiamo approfittato per ringraziare il buon Dio di averci fatto conoscere una persona buona come Jacques, e per pregarlo di dargli un bel posto nel suo paradiso... Abbiamo riso e pianto e perfino la sua prima moglie ha detto che era l'uomo più gentile che lei avesse incontrato nella sua vita grama.

E, per finire, abbiamo tutti seguito il carro funebre al cimitero.

E quando siamo tornati, oh santo cielo! Abbiamo scoperto che qualcuno, sbadatamente, aveva chiuso il sottoscala delle fotocopie, chiudendovi dentro il signor parroco. Ma poverino! Gli abbiamo detto che eravamo proprio desolati, che avevamo solo applicato le sue consegne: chiudere le porte a chiave.

Non vi nascondo che era molto, ma veramente molto arrabbiato, soprattutto perché aveva visto il carro funebre. Quando ha urlato che non avevamo il diritto, Geneviève, benché sia una donnina minuta, si è alzata sulla punta dei piedi e gli ha puntato sul naso un dito minaccioso di maestra elementare dicendo: “Ah, signor parroco, non dica così; che le piaccia o no, i cristiani non si seppelliscono come i cani. Questa chiesa è nostra, non sua. Sono i nostri antenati che l'hanno costruita, allora non è un signorino appena uscito da scuola che può insegnarci quello che abbiamo il diritto di fare o di non fare.” Ha girato i tacchi ed è tornata ad occuparsi delle sue rose.

E il signor parroco nuovo, dagli occhi chiari come le sue idee, è salito furente a casa sua facendo i gradini quattro a quattro. E nessuno sa quando ne ridiscenderà.

in : www.finesettimana.org

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sabato 18 febbraio 2012

Sant'Antoni del purcell

Leggo:
“Domenica 15 gennaio a XXX, come è consuetudine, si è festeggiato solennemente il compatrono S. Antonio Abate, molto amato dalla popolazione. E’ stato venerato nella S. Messa delle ore 11,00 sostenuta dal Coro Parrocchiale diretto dal Maestro XXX e, terminata la celebrazione, i parrocchiani si sono stretti attorno a molti tavoli imbanditi per degustare la “cassoeula” , sapientemente cucinata da un’equipe di cuochi sopraffini, “quelli della rosticceria di Cascina Santa Cotica”!!!
Tutta la Comunità si è poi radunata in processione lungo le vie del paese per testimoniare l’attaccamento alla figura del Santo e per manifestare l’orgoglio di una fede così concretamente vissuta!
Presso il Centro XXX, dove è terminata la processione accompagnata dalla Banda di XXX, è stato acceso il falò che tanto entusiasma grandi, “molto grandi” e piccini che, tutti insieme hanno apprezzato le ottime frittelle, preparate ovviamente dalla già rinomata cucina parrocchiale”.

È un ritaglio di bollettino parrocchiale in terra di Brianza.
Non so se ridere o piangere di fronte a questo ingenuo impasto di idolatria e culinaria, per cui il “manifestare l’orgoglio di una fede così concretamente vissuta” alla fin della fiera sembra tradursi nel mettere le gambe sotto un tavolo per addentare il maiale fumante, prima d'aver portato a spasso per il paese la statua del santo di turno.
Davvero penso che ognuno debba poter credere come vuole, e come può. Certo è che con questo tipo di approccio, tra fumi d’incenso e di rosticceria, la vita del ghiotto devoto probabilmente filerà via liscia come l’olio per molti e molti anni, colesterolemia permettendo.
Le cose andranno diversamente quando, in nome della medesima fiducia nell’evangelo, il pio devoto si trasformi in credente e voglia testimoniare almeno qualche aspetto della radicalità richiesta da Gesù ai suoi: sedere a mensa con i rifiutati, parteggiare per gli esclusi, chiamare pane il pane e vino il vino di fronte alla violenza e al sopruso. Guardarsi dal blandire il potere, persino quello religioso, ma desiderare soprattutto la giustizia nei confronti dell’orfano e della vedova.
Facile allora che per lui si faccia buio su tutta la terra. E che persino la banda taccia.

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martedì 27 dicembre 2011

Ma più lungo di tutti ce l'ha il papa


















L’albero di Natale, dico.
Pare che Obama se ne sia fatto installare uno di otto metri, sotto il quale raccogliere la famiglia mulino bianco a cantare Silent Night. Sull’altra sponda dell’Atlantico, la regina Elisabetta dal ’52 addobba personalmente la conifera più alta di palazzo Buckingham, con il principe consorte sotto, a tenerle la scala. Quindici metri in tutto e mezzo quintale tra palle e palline multicolori.
E dunque il record par proprio che anche quest’anno spetti al Vaticano: un enorme abete, rosso (pour faire pendant con la porpora curiale), alto trenta metri e proveniente dalla foresta della Transcarpazia, di cui sino a ieri nessuno aveva mai sentito parlare e dove vegetava felice da ben sessant’anni.

Tutto si sarebbe aspettato il povero albero tranne che finire imballato e spedito alla corte ingessata del papa di Roma, che, peraltro, non perde occasione per tessere le lodi all’opera somma del Creatore, richiamando ad ogni fiato la sacralità della vita, l’impareggiabile splendore della natura, il sommo rispetto che le è dovuto, ecc ecc… E poi? Un brutto giorno, in un angolo dimenticato del pianeta, mentre nessuno ascolta e vede, un lavoretto di sega elettrica nemmeno tanto complicato e un viaggio di 1800 chilometri dall’Ucraina, sono quel che ci vuole per allietare la vista dalle mille e più stanze del Palazzo apostolico.

Che obelischi, campanili, torri, antenne e persino gesti come il saluto romano costituiscano altrettanti simboli fallici non è mistero. La storia e le piazze d’Italia ne sono piene. E se nel cristianesimo il legno richiama la croce di Cristo, l’albero come fallo universale è simbolo molto più antico e presente come tale probabilmente in tutte le culture. Ma a preoccupare non è tanto la veniale concessione sincretistica finita con disinvoltura fra gli addobbi natalizi di piazza San Pietro; piuttosto, in ambito cristiano, rattrista la ricerca dell’enorme, l’ostentazione ancora oggi di ciò che è grandioso. E la necessità comunque di una qualche vittima sacrificale.
Gli aborigeni australiani in certe danze iniziatiche tirano fuori la lingua in tutta la sua lunghezza – organo non scevro da connotazioni sessuali – allo scopo di intimidire gli avversari. E certi primati (stando all’etologia) per ottenere il dominio sul gruppo e il consenso della sua parte femminile, nell’atto di iniziare la lotta mostrano sfacciatamente i genitali ai concorrenti. Vince chi ce l’ha più grosso. Salvo imbarazzanti eccezioni, dove magari un pistolino da nulla prevale con l’astuzia su contendenti ben più accreditati e certamente meglio attrezzati.

Più che della buona notizia delle cose minime, al credente o al semplice visitatore, il colossale albero di Natale narra di questioni legate allo sfarzo del potere. E lo sforzo di trasferirgli un sempreverde di tali dimensioni sotto casa, nonché la sua lenta inutile agonia, si sarebbero potuti evitare qualora Benedetto avesse osato, contro qualsiasi tradizione, dare maggior credito al suo stesso magistero in materia di ecologia.

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